Il cibo è da alcuni anni al centro dell’attenzione dei media. In Tv, sul canale Sky Uno, parte questi giorni l’ottava edizione di Masterchef, mentre sui giornali non si contano gli inserti settimanali, come “Cucina” del Corriere della Sera che proprio nel numero di questa settimana dedica un articolo allo urban market Albinelli di Modena, e poi gli eventi, disseminati in tutta la penisola, dal Cibo a Regola d’Arte di Napoli al Salone del Gusto di Torino.

Un interesse che da un lato enfatizza il primato mondiale della cucina, anche regionale, italiana e dall’altro promuove un nuovo approccio glocal verso il cibo, definito con termine internazionale food. La competizione tra i nuovi maitre a penser, gli chef stellati, non mette all’angolo l’Italia anzi proprio a un italiano, modenese di salde radici emiliane, è toccato il podio del primo chef al mondo. Come ha fatto il cibo, basato su prodotti anche semplici, a scalare il cielo del gusto fino a diventare la chiave di volta di una rivoluzione che dall’Italia si è estesa a tutto il mondo?

In principio, era il 1986, fu Arcigola, che nel 1989, ben trent’anni fa, diventò Slow Food e mise la parola fine agli anni ottanta dei paninari e dell’omologazione identificata dal fast food americano. A fondarla Carlo Petrini, un visionario, da Bra, zona di Roero, Langhe e tortellini col plin. Nel 1996 si tiene a Torino il primo Salone del Gusto, di lì a poco nel 2004 nascono Terra Madre e l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, uno dei progetti più rappresentativi della filosofia di Slow Food, realizzata in collaborazione con due regioni, il Piemonte e l’Emilia Romagna, che del cibo “buono, pulito e giusto” hanno fatto un elemento di distinzione e di attrattività turistica.

Il fermento non riguarda solo il food, su cui ricerca, fantasia e imprenditorialità, hanno concentrato gli sforzi e creato un ventaglio di imprese innovative, ma ha investito tutto il mondo delle professioni legate alla ristorazione, al catering e all’ospitalità alberghiera. Professioni antiche si sono rivestite di nuovo carisma e di una ritrovata considerazione e, cosa rara, della missione di attrarre nel Belpaese i turisti, in particolare stranieri, a caccia di nuovi spunti per le loro vacanze. La cucina è infatti diventata un nuovo asset di promozione turistica dei territori “secondari” o sconosciuti. Ne è un esempio l’Appennino Emiliano che sta aprendo una breccia nell’in-coming internazionale grazie alle sue tipicità: tortellini, parmigiano, tigelle, lambrusco. Per gli aspiranti chef nel nuovo contesto diventa strategico il percorso formativo: ne è un esempio il CFP Nazareno di Carpi i cui allievi sono stati più volte ospiti presso la galleria del Borgogioioso offrendo un saggio delle proprie abilità professionali.

Oltre alla preparazione di base nuovi skills integrano il curriculum quali la competenza digitale. Infatti, come attestano le ricerche anche dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Turismo della School of Management del Politecnico di Milano, il turista “non digitale” è in via di estinzione, solo il 2% degli italiani tra i 18 e i 75 anni non ha usato internet per nessuna attività relativa alla sua ultima vacanza. E tra i servizi esperienziali che arricchiscono la travel experience del turista l’incremento più alto, +73%, tocca proprio i ristoranti. Non male, anche tenendo conto che nel 2018 il turismo in Italia, fra italiani e stranieri, ha pesato per 44 miliardi di euro. Un tesoro dove il peso e la ricerca della buona cucina si sta allargando.